La cittadinanza si acquista a titolo originario iure sanguinis, e lo status di cittadino, una volta acquisito, ha natura permanente, è imprescrittibile ed è accertabile in ogni tempo in base alla semplice prova della fattispecie acquisitiva integrata dalla nascita da cittadino italiano
Civile Sent. Sezioni Unite Num. 25318 -24 agosto 2022
La questione rimessa all’attenzione delle Sezioni Unite origina dalla sentenza della Corte di Appello di Roma depositata il 14-7-2021, notificata via Pec il 30-8-2021, la Corte d’appello di Roma, accogliendo il gravame del Ministero dell’interno e del Ministero degli affari esteri contro l’ordinanza del Tribunale di Roma in data 9-4-2020, ha respinto la domanda di riconoscimento iure sanguinis della cittadinanza italiana presentata dai Sigg.ri omissis , quali discendenti in linea diretta del cittadino italiano Sig. omissis, nato in Italia il 2-2-1860, figlio legittimo di padre italiano ed emigrato in Brasile alla fine dell’Ottocento. Ha motivato la decisione la Corte di Appello territoriale sul presupposto dell’applicazione dell’art. 11 del codice civile del 1865 (d’ora Corte di Cassazione – copia non ufficiale Ric. 2021 n. 28397 sez. SU – ud. 12-07-2022 -3-in poi, breviter, anche cod. civ. abr.) e ha ritenuto che del tutto verosimilmente sia il Sig –omissis– sia il di lui figlio Sig.-omissis- (nato in Brasile nel 1903) non potessero considerarsi cittadini italiani, l’uno per aver perduto la cittadinanza a seguito della tacita accettazione del provvedimento cd. di grande naturalizzazione brasiliana dell’anno 1889 (art. 11, n. 2, cod. civ. abr.), con conseguente tacita rinuncia alla cittadinanza italiana, l’altro per non averla mai acquistata iure sanguinis, e comunque per averla a sua volta perduta, esattamente come il padre, ai sensi dell’art. 11, n. 3, del citato codice, avendo accettato, senza permissione del governo italiano, un impiego dal governo estero. Contro la sentenza è stato proposto ricorso per cassazione da parte dei soccombenti, sulla base di sei motivi. L’avvocatura generale dello Stato, in rappresentanza dei Ministeri intimati, ha replicato con controricorso. La causa è stata rimessa alle Sezioni unite per la particolare importanza della questione sottesa, involgente l’istituto della perdita della cittadinanza da parte di cittadini italiani emigrati in Brasile e ivi sottoposti alla naturalizzazione di massa della fine del XIX secolo, attesi i riflessi sulla linea di trasmissione dei discendenti.
Le Sezioni Unite accoglieva il ricorso, cassava con rinvio la sentenza impugnata per i seguenti motivi:
- Il silenzio, o la mancata reazione, rispetto agli effetti del decreto di naturalizzazione di massa, protratti nel tempo unitamente
alla stabilizzazione di vita all’estero non assurge a rinuncia espressa alla cittadinanza, in questo caso italiana, anzi ” è decisivo osservare che il silenzio non può essere inteso in modo diverso da ciò che è. Esso è semplice sintomo dell’inerzia di un soggetto, il quale – silente, appunto – non manifesta alcuna volontà, né positiva né negativa”. Pertanto non può sostenersi che vi fosse – per il codice civile del 1865 – un onere degli italiani dell’epoca, emigrati in Brasile, di manifestare il proprio dissenso al decreto di
naturalizzazione onde conservare la cittadinanza italiana, né che il silenzio serbato, unitamente alla residenza o alla
stabilizzazione di vita all’estero, potesse ricevere valore di consenso. - La risposta al quesito devoluto alle Sezioni unite non può prescindere, in verità, da un’analisi di contesto: vale a dire dalla considerazione del contesto storico-normativo nel quale ebbe a collocarsi la grande naturalizzazione brasiliana
di fine Ottocento. L’analisi elide la premessa maggiore del ragionamento della corte d’appello di Roma, incentrata sugli “effetti” della grande naturalizzazione. XVIII. – La grande naturalizzazione del 1889 non esaurì in propri effetti in modo istantaneo.
Corrispose a un fenomeno di assimilazione progressiva. Peraltro, all’epoca era condiviso il sospetto degli ordinamenti statuali verso il fenomeno delle naturalizzazioni di massa in quanto tali. Ciò discendeva dalla constatazione per cui tali fenomeni
erano integrati da processi di stampo autoritativo, spesso arbitrari e oltre tutto accompagnati dalla resistenza ad
accordare al naturalizzato, almeno nell’immediatezza, i diritti politici.
In prospettiva assolutamente contraria agli effetti della naturalizzazione del 1889 è dimostrato, ad esempio, che il
governo italiano reagì ufficialmente (con dispaccio dell’allora presidente del consiglio Francesco Crispi del dicembre 1889),
affermando che la conservazione della cittadinanza italiana degli emigrati, dipendente da apposita dichiarazione da fare
entro sei mesi (ovvero entro due anni, come corresse la sopravvenuta costituzione brasiliana del 1891) dal provvedimento generale, sarebbe stata illusoria, tanto che – si scrisse – “riuscirà impossibile a numerosi coloni lontanissimi dai centri ove siano autorità, oppure esposti ad influenze ed a pressione, di sfuggire alla sanzione del decreto”. Si tratta di un indice ermeneutico significativo.
Esso dimostra quanto sia errato anche solo ipotizzare che la legge italiana dell’epoca – la legge dello Stato liberale – potesse tollerare interpretazioni idonee alla perdita della cittadinanza dei suoi emigrati in dipendenza dell’elargizione
mera di quella straniera, per nudo arbitrio di un governo estero. - A torto la corte d’appello di Roma, discorrendo di tacita accettazione degli effetti del decreto di grande naturalizzazione in virtù della stabilizzazione di vita, di relazioni sociali e di affetti dell’emigrato nel territorio brasiliano unita alla mancata manifestazione di una condotta reattiva del tipo di quella prevista nel decreto medesimo, ha ritenuto integrato il requisito stabilito dall’art. 11, n. 2, cod. civ. abr. La circostanza dell’accettazione – in qualche modo – degli effetti di un provvedimento di naturalizzazione di massa
non avrebbe potuto (e non può) desumersi da un contegno solo passivo.
Nessun rilievo poteva essere attribuito al mero atteggiamento inerziale, eventualmente manutenuto nel tempo, rispetto alle facoltà concesse dall’ordinamento agli stranieri naturalizzati, per l’elementare ragione che solo una condotta efficiente e attiva, e dunque positiva, sarebbe valsa come manifestazione implicita di volontà tale da corrispondere alla nozione insita nell’espressione “ottenere la cittadinanza” di cui alla fattispecie contemplata dal codice abrogato.
Criticabile si rileva poi l’altra affermazione alla quale la sentenza ha ancorato la perdita dello status sia del Sig -omissis- che del di lui figlio Sig.-omissis- incentrata questa volta sulla tacita collaterale rinuncia alla cittadinanza italiana da parte di entrambi.